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Premessa
1748: Carlo Emanuele III, duca di Savoia e re di Sardegna, alleato di Maria Teresa d'Austria nelle guerre di successione, con la pace di Aquisgrana estende i confini del suo piccolo ducato oltre il Ticino, annettendosi i distretti di Voghera e di Vigevano. 1748, 3 giugno: don Siro Ceruti, priore, prende possesso della "cura di Beinasco". Nella parrocchia di San Giacomo Maggiore, la cui costruzione è stata portata a termine cinque anni prima, il priore non trova che "alcune piccole memorie".
La cosa sembra meravigliarlo non poco; poichè ha il sospetto che qualcuno abbia trafugato documenti importanti, don Siro ottiene dal superiore ecclesiastico un "rotolo di scomunica contro chi quelli teneva, o sapeva, o occultava". Nello stesso tempo pensa sia cosa utile tenere un "Liber Adnotazionis", una memoria per i posteri, "acciò (che) nelle occorrenze abbino subito in pronto ragioni, e motivi di regolarsi secondo l'antico costume. Mi persuado che i Sig.ri successori me ne avranno a grado".
Don Siro è un giovane priore quando i superiori lo mandano a Beinasco a prendersi cura delle anime; l'ultima annotazione sul suo Liber ("speso per vestire un povero nominato Paulizia denari...") risale al 17 agosto 1793, 45 anni dall'arrivo in paese. Nell'espletamento del suo ministero è affiancato da un giovane cappellano. Da buon cristiano, in parrocchia ospita di frequente viandanti, studenti, poveri di passaggio. Muore nel 1795, a 75 anni.
4. Natalità e mortalità infantile.
La Chiesa, fino a tempi relativamente recenti (seconda metà del secolo scorso), fungeva anche da Ufficio di Stato Civile. Registrava, in presenza di testimoni, nascita, matrimoni e decessi. II presente paragrafo, che doveva trattare dello Stato Civile, nasce monco, perché dall'Archivio Parrocchiale mancano i registri dei matrimoni e dei decessi per il periodo considerato 1749-1751); a disposizione il solo "V Liber Baptismatum" (Quinto libro dei Battesimi), un voluminoso registro manoscritto, redatto in latino dai parroci di S. Giacomo Maggiore dal 1737 al 1803; in ordine cronologico vi sono elencati battesimi di Beinasco e dei suoi "cassinaggi". Il censimento del 1751, l'unico ad indicare anche l'età dei censiti, serve da complemento per trattare delle nascite avvenute nella "cura" di Beinasco.
Occorre aprire una breve parentesi per accennare alle coppie di coniugi che nell'anno appena ricordato sono 201 (82 a Beinasco-centro e 119 nei "cassinaggi"). Il marito, di solito è più vecchio della moglie, ma non è raro il caso inverso: infatti 36 mogli (su 201) hanno qualche anno in più dei rispettivi consorti. Non mancano coppie con notevole differenza di età (in simili circostanze il marito è sempre il più anziano): il caso limite è costituito da un maturo uomo di 59 anni, non benestante, sposo, forse in seconde nozze, ad una giovane di appena 20. Delle 201 mogli, 138 sono al disotto dei 45 anni, considerati questi ultimi come termine dell'età feconda nella donna. (I parti oltre il quarantesimo anno di età sono frequenti.
Nè mancano testimonianze di maternità in età molto avanzata; nel 1751 Margherita Castagno, 55 anni ha un figlio di appena 7 anni; alla Bellezia Teresa Monasterolo, 48 anni, è mamma di una bambina di pochi mesi). I parti, in mancanza di ospedali, avvengono nelle abitazioni. Ostetriche improvvisate le vicine di casa della partoriente (forse, in casi particolarmente difficili, sarà intervenuto Giuseppe Cordero, medico-chirurgo). Le complicazioni intervenute durante il parto devono essere abbastanza frequenti se, come testimonia il "Liber Baptismatum", a non pochi neonati viene somministrato il Battesimo in "periculo mortis".
7. La malaria.
Quando pensiamo al "buon tempo antico", ci configuriamo un ambiente in cui la fatica dell'uomo e la generale povertà sono mitigate da una natura integra: acqua e aria pure, vegetazione rigogliosa; un ambiente che non sa di inquinamenti insopportabili, di rumori assordanti, di nevrosi legate alla "civiltà del benessere".
Le pochissime notizie ricavate dal libro di memorie di don Siro Ceruti cancellano l'idea fantastica di un idilliaco mondo perduto. A poco più di un secolo dalla peste del 1630 che spopola letteralmente Beinasco (il Perrachino, nella premessa alla "Causa della Comunità di Beynasco contro l'Illustrissima Città di Torino", 1664, tra l'altro annota: "Avanti il Contaggio erano in detto luogo cento, e più capi di casa e à causa di tal Contaggio e passaggi di Soldatesche... si è ridotto detto luogo oggidì ad otto capi di casa"), per le nostre contrade imperversa la malaria. In una nota non datata, ma presumibilmente anteriore al 1760, don Siro scrive: "Avendo patito questo luogo un rifluzzo durante tre anni di febri terzane, semplici e doppie, et quartane, e ciò sendosi attribuito al maceramento della canapa... si è racorso alla Camera... Doppo aver mandato sul luogo delegati per prendere le sommarie informationi, da detta Camera escì decretto, inibendo qualunque persona di mettere a macerar canapa nel Sangone... principiando dalle fini di Gunzole sino al di sotto la strada di Pinerolo che passa vicino alla Madona del Sangone".
Trent'anni più tardi, in una delle sue ultime annotazioni, don Siro ricorda " Poiché il tumulo comune (il cimitero), sito fuori della Chiesa parochiale... e le sepolture in chiesa rendevano un fettore che amorbava cotesto luogo, e principalmente la casa parochiale, di modo che tutti li anni eravamo sogetti a febri terzane doppie... ", ecc. Non la macerazione della canapa, né il "fettore" (dovuto alla decomposizione dei cadaveri) che proviene dalla fossa comune posta a ridosso di San Giacomo Maggiore, ma la sicura presenza di acque stagnanti -- luogo ideale per lo sviluppo dell'anòfele, apportatrice della malaria -- é la causa unica del diffondersi della malattia tra la popolazione.
Non esiste il benché minimo cenno su quanti tra i Beinaschesi sono colpiti dal suddetto "rifluzzo"; anche se i registri parrocchiali dei decessi non indicano la causa delle morti, si può fondatamente pensare che la malaria faccia non poche vittime tra gli abitanti del luogo.
9. Famiglie originarie di Beinasco - Onomastica.
Alcune famiglie tuttora residenti a Beinasco (i Ferrero, Castagno, Monasterolo, Brunetto, Bronzino, Moriondo; forse i Vaschetto, Boccardo e Dagna) discendono sicuramente da nuclei familiari presenti sul territorio da almeno una decina di generazioni. Nel 1751 i Ferrero e Monasterolo sono tanto numerosi che diventa legittimo pensare si siano stabiliti in paese da qualche decennio almeno.
Lo storico Perrachino ricorda che inseguito alle frequenti scorribande delle soldatesche spagnole e francesi e a causa della peste del 1630, Beinasco, per una trentina d'anni, cessa di essere "corpo di Comunità". Nel 1631 non vi vivono che 8 famiglie, una quarantina di persone. Le abitazioni, abbandonate, cadono in rovina. "Resulta esservi solo quattordici case, sei delle quali rese habitabili... e le altre già minaccianti rovina... Tutto il resto di dette case, che saranno in numero 80 e più affatto rovinate, delle quali (non) si vedono che bussoni (cespugli) et sambuchi".
Nel 1760 il duca Carlo Emanuele II, constatato lo stato di generale abbandono ordina ad alcuni nuclei familiari delle vicine contrade di stabilirsi a Beinasco. Si può fondatamente pensare che tra le famiglie precettate alcune avessero per cognome Ferrero, Moriondo, Castagno, ecc. Nella "ricerca" delle famiglie più antiche di Beinasco ho seguito alcune regole elementari:
1) ho considerato il censimento del 1751, l'unico che riporta l'età, e spesso anche la professione, dei censiti;
2) per una visione più completa, la ricerca si estende all'intero territorio di Beinasco (comprese dunque le frazioni e i numerosi cascinali, come Gonzole, Manta, Tre Tetti, Bellezia, ecc.), poiché le famiglie contadine -- come è facile constatare dai censimenti -- si spostano quasi ogni anno da un podere all'altro e talvolta si stabiliscono nei paesi vicini;
3) nel censimento appaiono non pochi errori di trascrizione dei nomi dei censiti. Si è pensato che le lievi varianti (ad esempio Aghem e Aghemo, Desanfan e Desanfani, Monasterolo e Monesterolo, ecc.) riconducano a cognomi simili.
Tranne che in pochi casi non è stato possibile stabilire il grado di parentela tra nuclei famigliari che portano lo stesso cognome. (E'anche probabile che famiglie con lo stesso cognome non siano legate da parentela). *** Le famiglie Monasterolo presenti sull'intero territorio nel 1751 sono otto: quattro risiedono ai Tre Tetti, tre a Beinasco-centro ed una alla Bellezia.
Il senatore referendario Perracchino, durante la visita effettuata a Beinasco il 16 aprile 1664 per ordine del duca Carlo Emanuele II, trova in tutto il paese appena otto nuclei familiari. "Avanti il Contaggio -- si legge nella premessa alle Allegazioni-- erano in detto luogo cento, e più capi di casa, e à causa di tal Contaggio [...] e passaggi della Soldatesca nelle passate Guerre si è ridotto oggidì ad otto capi di casa, quattro [dei] quali stanno per massari dell'Eccellentissimo Sig. Conte Filippo, signore di detto Luogo, e senza questo appoggio havrebbero abbandonato..." (amare parole, le ultime, che dicono delle impossibili condizioni di vita dei Beinaschesi superstiti).
Il contagio di cui parla lo sconosciuto autore delle Allegazioni è l'epidemia di peste bubbonica che investe l'Italia settentrionale nella seconda meta del 1630; le soldatesche sono truppe mercenarie francesi e spagnole, calate in Piemonte per dare man forte ai Gonzaga, avversari dei Savoia, durante la campagna militare intrapresa dal duca Carlo Emanuele I per la conquista del Monferrato. Fin dal 1599 in Torino e campagne vicine, secondo il Della Chiesa, autore di una Storia del Piemonte, si riscontrano focolai di peste. Ma nel 1630 il morbo imperversa con inaudita virulenza. Nella sola Torino, allora città di ben modeste dimensioni, in pochi mesi muoiono di peste oltre ottomila persone.
Dall'archivio parrocchiale beinaschese manca il registro dei decessi relativo al periodo del contagio (la chiesa di San Giacomo Maggiore è più volte saccheggiata e infine incendiata con l'intero archivio dalla soldatesca nel 1631). Tuttavia non è azzardato affermare che la peste provoca moltissime vittime in paese. La medicina del XVII secolo non conosce rimedi contro il morbo che si manifesta con i segni di una grave infezione generale (febbre alta, vomito, delirio e infine sopore comatoso) e con la comparsa di bubboni, dovuti alla tumefazione delle ghiandole linfatiche che suppurando emettono pus pullulante di bacilli.
La determinazione dei confini è stata spesso causa di interminabili dispute. A una lite, iniziata nel 1288 e durata per almeno quattro secoli tra "la Città di Torino, & li Signori Conti di Beynasco per la terminazione de' Territorij", fa riferimento il più antico documento custodito nell'archivio parrocchiale: "Allegazioni in fatto, ed in ragione nella causa della Communità di Beynasco contro l'illustrissima Città di Torino, e Signori Lite-Consorti".
Si tratta di una prolissa dissertazione giuridica, raccolta in un testo di una novantina di pagine, composto a grandi caratteri mobili, non datato, ma presumibilmente dell'inizio del Settecento. L'ignoto autore, esperto di dispute giudiziarie, partendo della "sentenza arbitramentale" del 17 aprile 1288 -- garante tra gli altri il vescovo di Torino, Goffredo -- che determinava i confini tra le due comunità, fa la cronistoria della vertenza beinasco-torinese.
Si può pensare che in quattro secoli di lite avvengano fatti perlomeno spiacevoli. Il Nostro ne ricorda uno soltanto, ultimo in ordine cronologico, di una certa gravità, che coinvolge alcuni particolari (contadini) beinaschesi, sorpresi a pascolare le loro greggi nella campagna verso Mirafiori. E'l'anno 1604. Gli animali vengono requisiti e i contadini sottoposti a giudizio, incriminati di "illecita congregazione" (associazione per delinquere).
L'intera comunità di Beinasco avverte il sopruso e protesta vibratamente per "detti processi criminali". Ricorda che da cento e più anni i particolari hanno il "pacifico possesso" della suddetta campagna e portano, a sostegno dei loro diritti, la testimonianza di ventuno persone, abitanti per lo più nella campagna di Mirafiori. La sentenza, emessa il 10 luglio 1607, è tuttavia avversa ai beinaschesi: d'ora in poi non sarà più lecita la pastura in quei prati. Sulla interminabile disputa tra le due comunità sarà opportuno ritornare più avanti.